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Epica pura a Los Angeles

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Molti di noi che amiamo il baseball sono andati a letto che a Los Angeles avevano già cominciato. Almeno un inning, dai, per dire che c’ero anch’io. Qualche lancio, un paio di giocate, e poi si dorme, ché sono le 2 passate e c’è una vita da vivere anche qui. Il resto lo rivedremo domattina, registrato, o meglio: condensato. Poi ci siamo svegliati, uno sguardo ai telefoni e agli iPad, e quelli là stavano ancora giocando. Ci hanno aspettato, stavano facendo qualcosa di talmente tanto mitologico che devono aver pensato fosse giusto aspettare anche noi europei.

E adesso andrà come andrà, ma quel fuoricampo di Max Muncy resterà, per sempre. E tra cent’anni racconteranno ancora di quella volta che per una partita di World Series han giocato 7 ore e 21 minuti. Mentre a Boston sperano che tra una settimana quel che ha fatto Ian Kinsler al 13° inning sarà dimenticato, perché vorrà dire che alla fine non avrà pesato sulla serie.

Muncy

Quante cose, in questa partita. I lanciatori, anche i partenti, che vanno dentro perché non c’è un domani, o forse ci sarebbe, ma non è il caso di pensarci troppo. A volte, nella vita, ti può sembrare persino consolatorio non avere scelte. Non doverti spaccare il cervello a immaginare strategie: c’è un’emergenza, si va, a tutto il resto penseremo dopo. Diciotto, ne sono passati dal monte, diciotto lanciatori.

Uno, più di tutti. Uno di 24 anni che alla sua prima stagione in Major si è trovato a lanciare alle World Series, lo ha fatto per 7 inning, e quando ha finito, mentre si avviava verso il dugout ha visto Sandy Koufax in piedi ad applaudirlo. Sandy Koufax, in piedi, per Walker Buehler. Sette inning, sette strike out, due sole valide, zero basi ball, zero punti. Quindi sono andati a vedere: chi in una partita di WS ha lanciato almeno 7 inning, con 2 o meno valide, e almeno 7 K, e 0 basi. Han guardato e han trovato Dan Larsen, nel perfect game di gara5 nel 1956; e Roger Clemens, in gara2 del 2000; e riga. Solo loro due e Walker Buehler.

BuehlerKoufax

La redenzione. Cody Bellinger che va in base al 9°. Sei il punto della vittoria, Cody, dopo di te batte Yasiel Puig: pensa a correre forte. Cody prende, prende vantaggio lungo la corsia e sul monte c’è un mancino, c’è David Price. Due giorni dopo, Price: vuol dire che è saltato tutto, non c’è logica, non ci sono ragionamenti, per Boston c’è solo un inning da chiudere, un punto da evitare qui e ora. Un out in più da fare. Bellinger glielo regala, facendosi beccare fuori base. Solo che poi, l’inning dopo, sono i Dodgers in quella situazione lì: c’è un corridore in terza. Volata su di lui, su Bellinger. Ora o mai più. E se è ora o mai più ci vai con due mani, dopo che l’hai acchiappata la sfili come se fossi un interbase, miri la testa del catcher e ci metti tutta la forza che hai. Ma si capisce che noi qui ragioniamo come gente che ha giocato a bassi livelli, in MLB funziona diversamente, così Bellinger ci va con una mano, la prende: non è lontano, e infatti centra – più o meno – il catcher senza rimbalzi: out. Out a casa base, fine del 10° inning.

E poi Eduardo Nunez, che si infortuna due o tre volte, ma che con una battuta improbabile tira dentro il punto. E’ il 13° e siamo 2-1 per Boston. Los Angeles è stritolata. Due out, Max Muncy in seconda, battuta su Kinsler, non facile, eppure lui c’è, ce l’ha in mano. E’ la palla del terzo out, del 2-1 al 13°, del 3-0 della serie, di tante considerazioni statistiche su quante rimonte dallo 0-3 ci sono mai state nella storia. Kinsler cerca il finale ad effetto, la spara di sottobraccio. Ma a due metri dal prima base. Cioè la fa rimbalzare via malinconica. E Muncy segna: 2-2. Per la Città degli Angeli l’inferno può attendere.

Kinsler

Quindicesimo: Kenta Maeda – c’è il partente Kenta Maeda al 15° inning sul monte per Los Angeles – sa che facendo le cose da manuale non la si vince, una gara così. E quindi con uomo in prima e uomo in seconda il bunt che si ritrova davanti lo gioca in terza. Justin Turner si allunga dalla terza come se fosse in prima: out e Boston un po’ più lontana dal terzo punto. Che infatti non segnerà. Sempre quindicesimo: Muncy la spara lontana. Lontana, fuori, certamente fuori. Fuori anche dal palo di foul, però, di un metro.  Un metro più a sinistra e sarebbe finita. Un metro, cioè forse qualche decimo di grado del suo swing, forse un millesimo di secondo sull’impatto. Un decimo di grado in più o in meno, un millesimo di secondo in più o in meno e tu vinci. O perdi. “Battuta del morto”, si chiama una battuta così. Quando la spari fuori ma in foul. Perché di solito subito dopo muori. E infatti Muncy è morto, ovvero, nella metafora del baseball, è finito strike out. Sempre 2-2, avanti.

Muncy2

Sedicesimo. Se volete un dato di quelli che spiegano molte cose: i primi 4 battitori di Boston, intesi come posti nel lineup, perché in realtà ci sono stati un bel po’ di cambi, sono ancora a zero valide, e ci resteranno: chiuderanno a 0 su 28.  Diciassettesimo inning.  Sono passate 7 ore e 21 minuti dal primo lancio di Buehler. E’ dal 1903 che giocano le World Series, e mai c’era stata una partita così lunga. Anche perché in pratica son due partite in una, 18 inning. Lo scrivo per chi mai fosse arrivato fin qui senza saper tanto di baseball: 9 inning sono quelli regolamentari, gli altri 9 sono stati supplementari. La gente allo stadio ha mangiato, bevuto, è stata due o tre volte alla toilette. In Europa ci siamo già svegliati, anche noi adesso stiamo guardando Max Muncy che torna alla battuta. Tre inning prima era morto, adesso è di nuovo qui. Perché il baseball spesso te la dà, un’altra possibilità. Per Boston, ormai dal 12° inning, lancia Nathan Eovaldi, un altro partente che in pratica ha tirato una partita intera. Conto pieno, parte il 561° lancio della notte. E bum.
Epica pura.

 

 

 

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